Qualche scatto
con il telefonino all’interno di un bar, per immortalare il ricordo di uno
sprazzo di vacanza. Una mano che piomba addosso, impossessandosi del cellulare.
Poi il caos. È l’inizio dell’odissea turca dell’udinese Adelmo Ivano Musso –
pensionato settantatreenne, un passato lavorativo di cuoco al servizio, fra
l’altro, di due Ambasciate italiane, a Berna e a Stoccolma –, da poco rientrato
in Italia dopo più di tre mesi di permanenza forzata a Istanbul, seguiti ad un
giorno di arresto. «La vicenda che mi è capitata – testimonia il protagonista
della disavventura – è talmente surreale e preoccupante che desidero
raccontarla per far capire cosa può nascere, in certi luoghi, da gesti che noi
consideriamo assolutamente normali e legittimi. Mi trovavo a Istanbul: ero
arrivato il 28 dicembre, avrei dovuto fare rientro a casa il 16 gennaio. Non è
andata così». Tutta colpa di alcuni clic in una caffetteria, appunto. «Era il 6
gennaio. Mentre stavo seduto a un tavolino scattai delle foto:
nell’inquadratura rientrava una persona, ripresa di spalle. All’improvviso un
soggetto che si trovava dietro di me mi ha sfilato con violenza il telefonino
dalla mano, accusandomi di aver violato la privacy. È seguito un momento di
grande confusione, con l’arrivo di uomini in divisa e senza alcuna possibilità
di chiarimento da parte mia. Sono stato trasportato al posto di polizia e lì
trattenuto per 26 ore, in uno stato di totale isolamento: non è stato messo a
mia disposizione un interprete, per poter dare delle spiegazioni, né mi è stato
concesso di comunicare con il nostro Consolato». In quelle ore drammatiche, però, Musso mai
avrebbe immaginato che sarebbe dovuto rimanere a Istanbul per i tre mesi
successivi. «Per effetto della denuncia sporta nei miei confronti – spiega – mi
è stato impedito di lasciare la Turchia, con l’obbligo di firma al comando di
polizia ogni lunedì». Tutto questo è andato avanti dall’8 gennaio al 15 aprile,
quando finalmente la situazione si è sbloccata. «Il Consolato italiano di Istanbul
– ricostruisce il pensionato – mi ha consigliato un avvocato, cui mi sono
rivolto ma che purtroppo non ha seguito il mio caso correttamente, determinando
il protrarsi di uno stallo che avrebbe potuto essere superato in pochi giorni.
Per un po’ sono rimasto in albergo, poi fortunatamente ho trovato ospitalità
nel monastero dei padri Domenicani dei Santi Pietro e Paolo in Galata, che mi
hanno accolto per ben 82 giorni. L’avvocato, nel frattempo, mi teneva in
sospeso, con continui rimandi che si sono prolungati fino a fine marzo». È
stato grazie all’aiuto dei frati che Musso ha trovato un secondo legale, «una
donna»: «In due settimane – spiega l’udinese – ha risolto e chiuso la mia
causa, dandomi così la libertà di rientrare in Italia, in data 19 aprile».
«Purtroppo – commenta poi – devo dire che il nostro Stato non ha fatto nulla
per assistermi, nonostante le pesanti difficoltà in cui mi trovassi. Dal
Consolato non ho ricevuto l’attenzione necessaria: spiace rimarcarlo, ma mi
sarei aspettato un’assistenza e un supporto ben diversi. Per fortuna –
ribadisce – alla fine ho incontrato i Domenicani, cui va tutta la mia
gratitudine: senza di loro, che con estrema umanità e generosità si sono resi
disponibili ad ospitarmi nei loro spazi e dimostrati pronti a darmi una mano
per arrivare ad una soluzione, non so davvero come avrei fatto».