Con Mario Monti il premier
"tecnico" imposto dall'allora Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano grazie all'appoggio dei media, della magistratura, dell'Unione Europea,
degli Stati Uniti e della finanza internazionale inizia un'epoca caratterizzata
dalla necessità imperativa di ridurre il debito pubblico. I percorsi da seguire
a tal fine erano solo due: il taglio delle spese e l'aumento della crescita
economica e quindi del PIL e degli introiti fiscali.
Purtroppo non sempre un
abbattimento di una spesa crea spazio alla riduzione del debito, anzi quasi
mai, perché a tal fine servono maggiori o uguali risorse. Le spese invece sono
strettamente legate ai ricavi. Se è dubbio chi sia nato prima, se l'uovo o la
gallina, nel rapporto spese-ricavi c'è una correlazione stretta e le spese
precedono sempre i ricavi. Senza spese non ci sono ricavi.
Ho sempre sostenuto che la riduzione
delle spese non rientra nella mentalità del politico. Una cosa è ciò che la
gente pensa e un'altra ben diversa è ciò che il politico ha in mente. Per il
politico non ci sono riduzioni, ci sono solo veri e propri travasi. Non si spende
più qui, si spende di là, e cioè dove conviene a lui o alla sua lobby.
In buona sostanza il tentativo di
riduzione della spesa pubblica così come è stato portato avanti in questi anni
ha comportato la chiusura di moltissime imprese con conseguente riduzione del
PIL e dell'occupazione e l'inesorabile aumento del debito pubblico che si
voleva abbattere parzialmente. La spesa è rimasta uguale perché si è tagliato
da una parte per aggiungere da un'altra, ma in termini relativi è aumentata
perché il PIL è diminuito.
La riduzione delle spese nella
Farnesina nasce male con la scissione da parte di Mario
Monti del Ministero degli Affari Esteri
e della Cooperazione Internazionale (MAECI) in due ministeri, uno per gli
esteri (MAE) e uno per la cooperazione internazionale (MCSI) e il
posizionamento ai vertici di quest'ultimo di Andrea Riccardi, fondatore della
Comunità di Sant'Egidio, l'ONU di Trastevere, che si occupa di aiuti e quindi
anche di cooperazione in oltre 70 Paesi. Un evidente e doloso conflitto di
interessi! La nazione Italia ai fini della cooperazione internazionale si
inchinava alla volontà di privati a cui non potevano stare a cuore gli
interessi degli italiani, ma soltanto i propri. L'attività della cooperazione
diventò più importante della rete diplomatica e lo smantellamento di questa
durante tutti questi anni servì per sostenere l'altra, più affine agli
interessi dei funzionari piazzati proprio lì per fare i loro comodi.
I due ministeri tornarono a
riunificarsi nel 2013, ma Mario Giro, delfino di Andrea Riccardi, vi rimase al
suo interno come bandiera della Comunità di Sant'Egidio. E il suo operato ha
mirato continuamente a smantellare la rete diplomatica per promuovere la
cooperazione, a privatizzare i servizi consolari, favorendo le figure onorarie,
amici e partner per lo più provenienti dal settore della cooperazione e ad
affidare i visti a società offshore dalle quali nulla trapela su assetto
societario, utili e pagamenti vari.
Con la sciabola della spending
review questo funzionario e altri come lui hanno imperversato nella nostra rete
diplomatica, distruggendo di fatto una struttura che era già all'osso in
partenza. La nostra spesa per i rapporti con l'estero era al tempo, e tanto più
lo è oggi, molto inferiore a quella degli altri paesi industrializzati.
Dire ad esempio che la sede di
Santo Domingo si autofinanziava, così come stanno le cose, non vuol dire
niente, perché la Farnesina vede solo quello che si spende. Non vede le
entrate, quelle vanno a finire nel cumulo ricevuto dallo Stato e non hanno
vincoli di ridestinazione all'estero. La rete diplomatica quindi spende
soltanto e basta. Così le cose non quadrano!
In questi giorni si parla del
costo della richiesta del riconoscimento della cittadinanza che è di 300 euro.
Cifra elevata si dice, che però la Farnesina non vede, perché va a finire nel solito
cumulo. La Farnesina vede soltanto quanto costa mantenere la sede e non sa quanto
se ne ricava.
Penso allora che non sarebbe
fuori luogo incominciare attraverso i parlamentari della circoscrizione estero
che i legislatori approvino una legge che preveda che ogni sede diplomatica e
ogni sede consolare in giro per il mondo
sia considerata un centro di costo a se stante nel quale confluiscano le spese
e i ricavi e del quale si facciano relazioni di convenienza per potenzialità di
generazione di affari e di diffusione del made in Italy.
È il minimo che possiamo
pretendere.
E vista la particolarità del
settore estero, le cifre introitate dovrebbero essere vincolate a una
ridestinazione alla rete diplomatica.
Avremmo così il potenziamento costante
della stessa e di risparmio non occorrerebbe più parlare. Se del caso, se la
situazione delle spese dovesse diventare insostenibile, le comunità laddove
queste sono numerose potrebbero anche collaborare.